SIGNORAGGIO BANCARIO

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domenica 4 luglio 2010

LA FECCIA CHE CI GOVERNA


Il senatore Marcello Dell’Utri (PDL) è stato condannato a sette anni di reclusione dai giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, per concorso esterno in associazione mafiosa. In primo grado al parlamentare del Pdl erano stati inflitti nove anni di reclusione.

I giudici sono rimasti in camera di coniglio per sei giorni. Il procuratore generale Nino Gatto aveva chiesto la condanna a 11 anni, con un aumento di pena di due anni. La Corte ha invece ridotto la pena di due anni, determiando in 7 anni la condanna del senatore, assolto per i reati successivi al 1992.

I rapporti con la mafia, quindi, ci sono stati, ma il «patto» basato sullo scambio politico no. I giudici della corte d’appello hanno tracciato una linea di confine molto netta tra il «prima» e il «dopo». Il «prima» abbraccia tutto il periodo che va dagli anni ’70 al 1992 quando Dell’Utri, con la mediazione di Gaetano Cinà, morto tra il processo di primo grado e l’appello, avrebbe avuto rapporti con personaggi di spicco di Cosa nostra come Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano poi finito come «stalliere» nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Questi rapporti, secondo il teorema dell’accusa condiviso ora dai giudici, sono serviti a Dell’Utri per assicurarsi la «protezione» mafiosa alle operazioni finanziarie e imprenditoriali da lui gestite per sè e nell’interesse delle società di Berlusconi. E in cambio i boss hanno trovato la strada aperta verso i salotti buoni della finanza milanese e nazionale.

Trovano dunque riscontro le ricostruzioni basate sull’apporto dei primi pentiti, da Francesco Di Carlo a Francesco Marino Mannoia, che hanno delineato un quadro «datato» dei rapporti tra il senatore del Pdl e Cosa nostra che si ferma appunto al 1992. Sul «dopo» la corte si è nettamente distaccata dalla linea dell’accusa sostenuta dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Proprio questo tema era il capitolo più significativo e più attuale del processo perchè prendeva in considerazione l’ipotesi di un «patto» scellerato tra mafia e politica. Ed è anche la parte della vicenda giudiziaria che prendeva in esame, in una prospettiva molto opaca, il ruolo svolto da Berlusconi dopo la sua «discesa in campo». Oggetto del «patto» sarebbe stato uno scambio: sostegno elettorale agli uomini di Forza Italia - Dell’Utri compreso - come corrispettivo di una linea di governo e di scelte legislative «benevole» nei confronti della mafia.

Nella rappresentazione che ne ha fatto Spatuzza, il «patto» sarebbe nato nel 1994 quando Cosa nostra rinunciò a inseguire il progetto di un impegno politico diretto attraverso le bandiere di «Sicilia libera» e decise di appoggiare il movimento di Berlusconi. La vittoria elettorale del 1994 avrebbe sancito l’accordo con piena soddisfazione della mafia. Nell’interrogatorio in aula a Torino del 4 dicembre 2009 Spatuzza ha citato in proposito un colloquio con il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Nel gennaio del 1994, qualche mese prima delle elezioni politiche, in un bar di Roma Graviano gli avrebbe detto: «Abbiamo ottenuto quello che volevamo: abbiamo il Paese in mano. Stavolta non sono quei socialisti, ma quello di Canale 5 (Silvio Berlusconi, ndr) e il nostro compaesano Dell’Utri».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201006articoli/56285girata.asp

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